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Alaska

  • Immagine del redattore: NOI Outdoor Project
    NOI Outdoor Project
  • 15 mar
  • Tempo di lettura: 3 min

Un fragile equilibrio tra maestosità e minaccia


Pic. Chiara Chinazzi
Pic. Chiara Chinazzi

Ci sono luoghi che sembrano sospesi nel tempo, eterni nella loro bellezza selvaggia. L’Alaska è uno di questi. Ma sotto la superficie della sua maestosità si nasconde una fragilità che l’uomo continua a minacciare, nonostante i tanti segni del proprio fallimento disseminati in questa terra. A Kennecott, un campo minerario abbandonato nella Copper River Census Area, accanto al ghiacciaio Kennicott, il passato racconta di ambizioni finite in macerie. Un tempo era il centro pulsante di un’operazione mineraria straordinaria: qui, tra il 1911 e il 1938, furono estratte oltre 4,6 milioni di tonnellate di minerale di rame. Oggi, di quella che fu una fiorente città, restano solo strutture di legno scolorite e un cimitero dimenticato. Percorrendo il Root Glacier Trail, il silenzio di queste rovine è interrotto solo dal fruscio del vento tra gli abeti. Poco distante, McCarthy, con i suoi cento abitanti, sembra congelata all’inizio del ‘900. Le sue vecchie case di legno e i magazzini polverosi raccontano storie di un’epoca passata, quando l’arrivo delle prime automobili rappresentava il progresso. Ma l’abbandono dell’uomo non lascia solo ruderi: qui, il ghiaccio ricoperto di terra e fango è tutto ciò che resta di un ghiacciaio un tempo imponente, ora in ritirata, testimone silenzioso dei cambiamenti climatici. Un altro esempio emblematico si trova nel Prince William Sound, un angolo di paradiso stretto tra montagne impervie e le acque del Golfo dell’Alaska, protetto da un arcipelago di isole che lo separano dall’Oceano Pacifico. Qui, nel 1989, il disastro della petroliera Exxon Valdez fece eco in tutto il mondo. Quasi 41 milioni di litri di petrolio si riversarono nel mare, causando la morte di circa 250.000 uccelli marini, 3.000 lontre di mare, 300 foche, 250 aquile calve e 22 balene. L’impatto devastante segnò l’ecosistema per decenni. Eppure, la natura continua a fare il suo corso: oggi, nelle stesse acque un tempo intrise di petrolio, si possono vedere colonie di leoni marini che si crogiolano al sole, ignari delle cicatrici che l’uomo ha lasciato su queste coste. C’è però un luogo in Alaska dove la natura sembra ancora vincere: il Lake Clark National Park and Preserve. Qui, nella Chinitna Bay, ho vissuto l’esperienza più incredibile della mia vita: camminare tra i grizzly, osservare i loro movimenti, sentire la loro presenza. In questa terra, gli orsi vivono in totale armonia, indifferenti all’uomo. È uno degli ultimi rifugi per loro, un luogo che pulsa del ritmo lento e ancestrale della natura. Ma questa armonia è minacciata.



La Cook Inlet Regional, Inc. vuole costruire una miniera nel cuore del parco, nel Johnson Tract, 21.000 acri di foreste e fiumi incontaminati. Oro, argento, rame: la promessa di ricchezza è pronta a cancellare per sempre questo ecosistema. Strade, infrastrutture, macchinari devasterebbero un territorio che è casa per gli orsi e fonte di vita per le comunità locali che vivono di ecoturismo.

E come se non bastasse, l’Alaska Department of Fish and Game sta spingendo per eliminare lupi e orsi con abbattimenti aerei, una misura brutale e irresponsabile per favorire le popolazioni di ungulati. Anziché agire con gradualità e rispetto, questa scelta distrugge ciò che rende unica questa terra, ignorando gli equilibri naturali e le comunità che ne dipendono.

Ogni fotografia che ho scattato al Lake Clark National Park è un frammento di un mondo che

rischiamo di perdere. Questa volta, però, la natura potrebbe non avere la forza di riprendersi. Eppure, i grizzly resistono, testimoni di una forza primordiale che lotta contro la minaccia dell’uomo in uno degliambienti più vulnerabili della Terra. Preservare questo regno fragile non è solo un atto d’amore, ma un dovere verso ciò che rende il nostro pianeta così straordinario.

 
 
 

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